Pino e la civiltà della pizza: «Così conquistai Treviso»

TREVISO. Raccontare la storia di Giuseppe Giordano, noto a tutti come Pino, è anche scavare nella memoria della Treviso in cui il pizzaiolo, partito negli anni Sessanta da Campinola di Tramonti (Costiera Amalfitana), ha costruito la sua fortuna imprenditoriale e familiare, fino a diventare uno dei re della pizza a Nordest. A poco meno di settant’anni (e non li dimostra affatto), era arrivato il momento per Pino di ripercorrere la strada fatta, lasciando alla penna dello scrittore napoletano Nino D’Antonio, cultore della cucina partenopea, il compito di “forzare” la memoria per descrivere la buona ventura nel nord Italia di uno dei tanti figli di Tramonti, paese diviso in tredici borghi sul cucuzzolo dei Monti Lattari e vista sull’Agro Nocerino Sarnese, patria del pomodoro San Marzano e dell’industria conserviera. «In Italia siamo ben oltre le millecinquecento pizzerie, condotte da tramontini e tutte con pieno successo» racconta Pino. E lui è uno di quelli che ha lasciato il segno nella “Civiltà della Pizza”, come da titolo del volumetto appena stampato e con cui si apre la nuova collana “I protagonisti” pubblicata dalla rivista trevigiana “Taste Vin” dell’editore Annibale Toffolo.
Dalle conversazioni tra Nino D’Antonio e il pizzaiolo (un tempo, oggi affermato imprenditore della ristorazione) è uscito un “quasi ritratto” che parte dagli anni dell’infanzia di Pino nella terra celebre per i suoi latticini, fiordilatte in primis, di cui Giordano sarà un ambasciatore nei suoi locali sparsi tra le province di Treviso e Venezia. Pino lasciò Campinola ad appena 16 anni (più tardi evitò il servizio militare perchè primogenito di sette fratelli), seguendo con curiosità - e poche lire in tasca - quanto raccontava uno zio salito a Varese. Nella città all’epoca capitale della calzatura, dando fondo ai risparmi affidati da mamma e papà (ci sono solo quelli, 2 milioni e 380 mila lire, e una volta finiti niente più), nel 1962 dà avvio alla sua avventura professionale mettendo in pratica un mestiere che ben conosceva per nascita, visto che la pizza (la stessa anima del pane) era un patrimonio culinario di famiglia. Avrà un buon maestro, Ciro, che gli insegnerà la regola numero uno: «Ricordati che avrai finito solo quando ti ritroverai con le mani asciutte e pulite. Perchè quella è la spia per sapere che l’impasto è pronto». Ciro e Pino guidano la pizzeria Santa Lucia (ancora aperta), ma Varese sarà una delle tante tappe che porteranno Giordano nel Veneto. Verranno Gallarate, Biella, Trecate, Vercelli. Poi arriva la chiamata di uno di Trapani che lo vuole a Mestre con un contratto da capogiro per l’epoca (90 mila lire più vitto e alloggio). Da Mestre a Mogliano nel 1972 il passo è breve. Pino rileva con l’aiuto del fratello Gianni un bar, che negli anni diventerà pizzeria. E da Tramonti arriva tutta la famiglia. «Mogliano ha inciso nella storia della mia vita» racconta al suo biografo. Nel 1977 sposerà Marcella e nasceranno i figli Francesco e Annalisa. Ma bisogna crescere ancora ed inseguire un progetto che sia vera impresa, andando oltre le logiche di famiglia. Pino lascia il locale di Mogliano ai parenti ed a Treviso, che già era “regno” dei Mansi, acquista - in un solo giorno - il Nostro Bar di Franco Zoppè in Strada Ovest, lanciando nel 1985 per la prima volta la pizzeria “moderna”, evoluta. Non più il posto di seconda categoria frequentato da militari e studenti con pochi soldi. «Ne feci un ambiente in cui portare tutta la famiglia senza spendere come al ristorante, tenendo conto delle esigenze dei bambini.Una pizzeria che andava incontro anche al grande sviluppo economico che la Marca viveva», dice Giordano,
«È stato un successo enorme, a luglio ed agosto facemmo anche 600-700 coperti al giorno. L’approccio con la città di Treviso è stato bellissimo, anche se criticavano il mio sistema di far andare a pagare alla cassa i clienti. Nessuno fino ad allora lo aveva fatto». Poi ingaggiò un braccio di ferro con Dino De Poli, il presidentissimo di Cassamarca, proprietaria dei muri della pizzeria di Piazza dei Signori, di cui Pino rilevò la licenza a metà anni Novanta. De Poli voleva farne un posto stile “bavarese”. Il pizzaiolo rispose “no, grazie”. La causa legale andò avanti per anni, finchè Cassamarca non divenne Unicredit e Giordano acquisì il pieno titolo di “paron” di quell’angolo del salotto cittadino. Nel ritratto c’è anche il racconto appassionato di come nasce una pizza “vera”. Nino D’Antonio ne descrive passo passo la sacralità della lavorazione, come si conviene a Napoli. «Pino se nelle sue pizzerie ha dovuto rinunciare, per le norme sanitarie imposte, agli aspetti storici della pizza, come la vampata finale in forno con i trucioli, e ad altri aspetti folcloristici, ha il merito di avere ideato il forno rotante ciclico, in cui è la pizza che si avvicina al fuoco e il cornicione esterno prende forma», spiega D’Antonio, «Gli va il merito di avere ideato la Pizzalonga negli anni Novanta. Se la pizza ha avuto un riscatto è grazie a lui». Il pizzaiolo di Campinola adesso ha lasciato il timone al figlio Francesco e insegue un altro sogno: «Voglio andare nelle scuole alberghiere d’Italia e costruire un team di giovani professionisti con cui aprire pizzerie a Mosca e Madrid».
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