Morte in cantina, parlano i periti

Colbertaldo di Vidor, in tribunale il caso di un tragico infortunio a un operaio

VIDOR. Era evitabile quel tragico incidente costato la vita a un dipendente dell’azienda vinicola, precipitato da una gabbia metallica mentre potava una siepe? È la domanda attorno alla quota ruota il processo a carico di Luisa Francesca Bellussi, 47 anni, e Bernardo Piazza, 53, entrambi di Vidor (difesi dagli avvocati Piero Barolo e Italo Albanese), a processo per omicidio colposo. Ieri in aula un consulente ha ribadito come il personale fosse stato formato sulle norme di sicurezza e antinfortunistiche.

La Procura della Repubblica di Treviso contesta ai due imprenditori delle aziende Ceviv e Le Rive di avere avuto responsabilità, come legali rappresentanti dell’azienda, nella morte di un loro dipendente, Adriano Da Re. Il fatto risale al pomeriggio del 23 giugno 2014 quando Da Re stava potando una siepe dell’azienda agricola di via Rive a Vidor su una gabbia metallica elevata da un muletto manovrato da un collega. A un certo punto perse l’equilibrio e cadde a terra, sbattendo violentemente la testa. L’elisoccorso del Suem lo trasportò all’ospedale di Treviso: dopo una decina di giorni di coma, il 2 luglio arrivò la morte. La Procura della Repubblica di Treviso aveva subito aperto un fascicolo ipotizzando l’accusa di omicidio colposo. All’esito delle indagini, la procura ha chiesto e ottenuto dal gup Angelo Mascolo di processare i datori di lavoro in particolare «perché ai lavoratori non era stata fornita un’attrezzatura adeguata a mantenere condizioni di lavoro sicure, in relazione all’altezza, di protezione contro cadute dall’alto e sollecitazioni derivanti dal movimento del mezzo di trasporto». Originario di Farra di Soligo, Adriano Da Re si era trasferito a Colbertaldo di Vidor e aveva trovato lavoro lì dopo una precedente esperienza in un mobilificio. Ieri, come detto, la perizia sulla formazione del personale. Il prossimo primo marzo è in agenda l’udienza conclusiva: il giudice deciderà la sentenza.

Fabio Poloni

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