L'imprenditrice di Treviso minacciata dalla 'ndrangheta: «Volevano uccidere il mio bambino, li ho denunciati»

TREVISO. «Bisogna avere fiducia nello Stato e denunciare questa gente. Io ho trovato il coraggio di farlo quando hanno minacciato anche mio figlio». Mariagiovanna Santolini, insieme al marito Stefano Venturin, è stata la
persona che ha dato il via all’indagine che ha permesso di scoprire le infiltrazioni della ’ndrangheta in Veneto. Tutto era iniziato con i fratelli Bolognino che si erano presentati con 400 mila euro in contanti da mettere in azienda. «Non ho mai nemmeno pensato di accettare una proposta del genere», racconta, «e così li ho rimandati indietro. Non li ho accettati e da lì si è scatenato l'inferno.
Ho cercato di dimenticare tutto per anni». I coniugi sono stati sequestrati in ufficio, con minacce continue di giorno e di notte, con sinistri riferimenti al figlioletto che, nel 2013, era nato da poco. Oggi vivono a Treviso, la loro città di origine, e si stanno impegnando in una start up che si occupa di energia rinnovabile. Erano finiti alla Gs Scaffalature di Galliera Veneta e qui erano stati agganciati.
Ci può raccontare come avvenne?
«Inizialmente sono persone pronte ad aiutarti in ogni modo e non si può fare di tutta un’erba un fasci perché sono meridionali. I problemi arrivano quando queste persone iniziano ad indicarti il commercialista da utilizzare o la persona da mettere all’ingresso per aprire e chiudere il cancello dell’azienda. Solo a questo punto iniziano le intimidazioni».
Il pestaggio è datato 2 aprile 2013. Cosa ricorda di quel periodo?
«Un inferno. Purtroppo uno non sa mai se si trova di fronte ad un bullo che gioca sul fatto che, essendo meridionale, può millantare agganci con la malavita oppure se si ha davanti una persona con alle spalle una vera organizzazione mafiosa. E si comportano come la gramigna, tanto che in quella occasione i Bolognino volevano la procura delle quote della società di Padova, la Gs Engineering di cui all’epoca ero amministratrice e socia».
E cosa le è scattato dentro in quel momento?
«Dopo le minacce anche a mio figlio ho capito che dovevo fare qualcosa. E così ho trovato il coraggio di denunciarli. Non è stato facile perché abbiamo dovuto affrontare tante preoccupazioni. Ovviamente i tempi della giustizia non sono immediati e quindi abbiamo dovuto aspettare anni per vedere il frutto della nostra denuncia. Ora possiamo già guardare con maggiore serenità al nostro futuro».
Nell’ordinanza è scritto che vivevate in uno stato di perenne soggezione.
«Era terribile. Il tutto è durato una ventina di giorni al massimo e non ce l’abbiamo più fatta. Nessuno avrebbe potuto. E così nel giro di poco abbiamo venduto tutto, cedendo tutte le quote di cui eravamo soci, l'azienda l'abbiamo restituita al fallimento e siamo andati a fare altro. In breve tempo io e mio marito ci siamo quindi ritrovati senza aziende e senza un futuro».
E come avete fatto a mettervi questa vicenda alle spalle?
«La paura è rimasta perché quanto è accaduto non si può dimenticare. Fortunatamente il lavoro ci va bene ma non posso più neanche prendere in considerazione la possibilità che qualcuno possa affiancarmi come socio. Andiamo avanti con le nostre forze credendo che solo con il lavoro possono arrivare i risultati».
Ora con l'inchiesta e gli arresti credete che sia stata fatta giustizia?
«Sì. A dire il vero non ci speravamo più. Ma la giustizia prima o poi arriva per tutti».
È una storia che volete ancora dimenticare?
«Abbiamo dei figli e ci siamo messi a fare tutt'altro, non vorremmo tornare indietro né esporci troppo. È la prima volta che parlo di tutto questo. Ma è tutto agli atti, ormai. L’unico consiglio che mi sento di dare è: denunciate e fidatevi delle forze dell’ordine».
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