La notte dei panevin, genesi di una tradizione

Lo scrittore trevigiano Eugenio Bucciol racconta in un libro l'origine del falò d'Epifania
ARCADE 05/01/2005 PANEVIN panevin di arcade
ARCADE 05/01/2005 PANEVIN panevin di arcade

«Panevin è intraducibile in italiano e credo in ogni altra lingua. L’italiano dovrebbe conservare il termine dialettale com’è, arrotondandolo al massimo in “panevino” e rinunciando alla pretesa di identificarlo nel falò. Il panevin nella sua forma antica, sopravvissuta fino al secondo dopoguerra, non è soltanto una piramide di canne di granturco, di rovi e vidisoni, con la strega di paglia in cima, che del falò proprio non si vede, ma soprattutto un rito il cui significato propiziatorio, l’espressione dialettale evidenzia in modo accorato».

Così lo scrittore trevigiano Eugenio Bucciol introduce l’antica tradizione locale del panevin nel suo libro “Il presepe di carta. Storie di vita contadina” fresco di stampa per Edizioni Becco Giallo, che raccoglie venti ritratti di un Veneto rurale oggi ormai quasi scomparso.

L’autore, nel racconto “Vidisoni”, mette in evidenza come il panevin, nella Marca trevigiana, non “se brusa”, ma “se ciama”, l’incendio delle “piramidi votive” costituiva l’occasione per invocare un futuro con molto “pane e vino”. Nel ricordo di Bucciol infatti ciò che veniva bruciato non era simbolicamente “l’anno vecchio”, ma un legno speciale “in dono” per avere buona sorte: «Gli adulti avevano portato dal larin, protetta nella cenere, la brace del ceppo natalizio di gelso, el nadain. Larin esprime poeticamente il concetto di focolare attraverso quello della protezione accordatagli dai lari, le divinità domestiche».

Per il contadino questa sorta di totem arcaico evocava anche potere oltre che propiziare fortuna, come scrive Bucciol: «Ogni contadino costruiva il proprio panevin, grande in proporzione ai campi lavorati. Esso era ciò che oggi si usa definire uno status symbol, un simbolo tuttavia non di ricchezza ma di potenza lavorativa, perché a più campi corrispondevano più braccia e più bocche da sfamare».

Infine, anche se le faville andavano “verso la terra povera del Friuli”, l’annata di attesa carestia veniva scongiurata gridando: »Fasioeti pai poreti, fasiooni pai paroni, el pan e viiiin!».

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