Errori nel cambio del sesso Tre chirurghi a processo

CONEGLIANO. Gianluca è entrato all'ospedale Umberto I di Roma sognando la sua nuova vita, che sarebbe passata attraverso una transizione sessuale: da Gianluca a Silvia. Come lui altri tre uomini che volevano diventare donne, tutti operati dall'equipe del primario di chirurgia plastica Nicolò Scuderi con il collega chirurgo Luca Andrea Dessy e la biologa Cinzia Marchese.
I tre specialisti sono oggi imputati perché avrebbero eseguito sperimentazioni non autorizzate sulle quattro pazienti transgender. Oggi Silvia vive a Padova, dove ha sposato un padovano. Dopo l'intervento le quattro persone – che da uomini volevano diventare donne - si sono trovate con organi sessuali non definiti. La transizione è avvenuta tra il 2011 e il 2013, ma il processo è ripreso ieri mattina nella capitale perché, a udienza in corso, nel 2015, c'è stato il cambio del giudice monocratico che ha azzerato l'attività dibattimentale svolta fino a quel momento. Le accusatrici, oltre all'odissea fisica, denunciano di non essere state informate che l'intervento era sperimentale. A dimostrarlo – sottolineano gli avvocati della difesa, Giorgio De Arcangelis, Alessandra Gracis, coneglianese, e Gaetano Grieco – la pubblicazione di un articolo (a gennaio 2014) su una rivista scientifica dove gli stessi medici presentavano una “nuova tecnica operatoria”. «L'accusa è di “lesioni volontarie gravi e gravissime” – scandisce l'avvocatessa Gracis - con previsione di pena da 6 a 12 anni. L'operazione era sperimentale e, dunque, gli stessi chirurghi avevano messo in conto che potesse finire male. Ma questa opzione non era stata presentata alle pazienti che sostengono di non essere state messe a conoscenza del carattere innovativo dell'intervento, con tutti i rischi che questo poteva comportare». Cavie insomma a loro insaputa. «I medici di Roma non hanno operato con la tecnica standardizzata dell'inversione del pene», spiega l'avvocatessa, «ma hanno usato cellule ingegnerizzate (la pelle esportata dalle labbra delle pazienti poi manipolata in laboratorio) da impiantare nella neo cavità vaginale. Pertanto dovevano essere autorizzati dal Comitato etico dell'ospedale stesso. E questo non è mai accaduto. Nè hanno interpellato l'Agenzia italiana del farmaco o l'Istituto superiore di Sanità. Hanno stravolto la vita di queste persone». «Mi sono trovata con un intruso di 15 centimetri nella mia cavità vaginale», racconta Silvia, la vittima di adozione padovana, «una specie di fallo permanete che non si staccava più se non chirurgicamente: anche nel breve periodo di un lavaggio, le pareti vaginali si attaccavano. Ho aspettato tutta la vita questa operazione, ho lottato come una belva ferita per trovarmi infibulata con dolori fisici insopportabili e un dolore spirituale anche più profondo. Dovevo tenerlo tre mesi, era solo un tutore, ma ogni volta che lo toglievo le pareti vaginali si chiudevano come in una morsa. Ho vissuto così un anno. Adesso con mio marito non posso avere rapporti sessuali, lui è una donna diventata uomo, siamo il perfetto incastro d'amore, ma senza vita sessuale. Mi hanno distrutto la vita: resterò così per sempre. Mi aspetto giustizia giusta». —
Elvira Scigliano
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