Bert Pillon morto in solitudine una vita vissuta oltre i limiti

Qualcuno ha scomodato Van Gogh. Va ben tutto, mappercarità. Qualche altro ha cercato di nobilitare il suo irrefrenabile e malato istinto pedofilo raccontando la storiella di un suo adescamento avventuroso. Per carità.
E' morto a 76 anni (molti se si considera il suo stato disastroso di salute) Bert Pillon, ex cameriere, sedicente pittore, certamente condannato per un assassinio compiuto - stando alle carte - in stato di alterazione alcolica e psichica. Non un eroe, ma certamente un protagonista di una vita cittadina in anni non sempre limpidi ed esemplari.
Certo, se lo aveste visto baciare sulla bocca un ragazzino-vittima di otto anni, con accanto l'ignaro e distratto padre accanto («cosa c'è amore? Che ti hanno fatto? Andiamo via»), non sareste troppo indulgenti con lui in questo momento. Ed è fatica assoggettarsi al rito del "rispetto almeno per la morte" che, sempre, il benpensare usa quando non si possono raccontare bugie.
Ma anche Bertillo Pillon aveva una mamma, certo, e chissà quanto ha patito per quel ragazzo di cui non si poteva nemmeno dire – nei momenti di slterazione alcolico-psichica – che "non era cattivo".
Lo era. Tanto che, in quella notte del 4 dicembre 1987, aveva ucciso il suo momentaneo convivente Rudy Bellotto, 34 anni, con una ferocia non lucida, ma feroce. Era finita lì la sua favola nera, la favola del finto "amico dei divi", che inseguiva disperatamente Morandi, la Lollo, Rita Pavone e tanti altri "cantagirini" per avere la gioia di una foto con loro.
Era finita con una condanna a 8 anni e mezzo di prigione più tre di psichiatrico. La gente lo aveva dimenticato e lo dava già per defunto. Tanto da stupirsi, in queste ore, della notizia del decesso.
Da otto anni, dopo una caduta dalle scale, ormai gonfio di psicofarmaci e devastato da una malattia per nulla veniale, era, incosciente, in un letto del Menegazzi, e chissà la delusione se avesse potuto constatare la venialità e la facilità di un selfie "illustre" nei giorni nostri.
Se n'è andato nel silenzio più cupo, in un letto, per i non autosufficienti, della casa di riposo, senza nessuno accanto, quello che si era autoconsiderato uno dei protagonisti della Treviso degli Anni Settanta, ma che in realtà era indicato, da padri e madri, un po' come l'uomo nero da evitare ai giardini e al bar.
Bert era insieme il dott. Jeckill e mister Hyde. Molto dipendeva dal grado alcolico, altrettanto dal malessere che lo affliggeva. Negli ultimi anni da "cosciente" seminava i suoi "quadri" nelle redazioni dei giornali e delle radio cittadine, tra una "pestata" e l'altra - a volte non lo si domava se non con 5 agenti delle forze dell'ordine - raccontava della sua amicizia con Morandi, favoleggiava della sua partecipazione da comparsa a un film con Philppe Leroy, esibiva foto con i divi che in realtà erano penosi fotomontaggi, si fiondava - lui, stonato come un muflone ubriaco - a concorsi vocali allora abbondanti e in voga.
In città molti gli davano - con prudenza - la loro confidenza, come il presidente di Fondazione Cassamarca, Dino De Poli. Altri, preceduto dalla sua peggiore fama di attaccabrighe e di disturbatore sessuale, invece lo rifuggivano. «Ognuno muore con la propria camicia», dice l'antiquario Beppe Vanzella, che era buon conoscente di Bertillo Pillon. Peccato che quella di Bert fosse una camicia di forza. Peccato che, stravolto da momenti di pura follia, in presenza di autorità e personaggi pubblici, si lasciasse andare a manifestazioni ben oltre il limite della decenza.
Rinchiuso rabbiosamente desolatamente in quella camicia, il "pittore" Pillon, che organizzava buffissime aste di quadri in cui accanto alla firma c'era il prezzo in milioni (mai pagati da nessuno), trovò il finale di partita in quel desolato omicidio. Da quel processo la città che lui credeva sua, lo cancellò. Bert Pillon morì, per tutti, allora. Restò il gonfio e ciondolante Bertillo. Poi neanche quello.
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