La Resistenza del partigiano Rolando

DANIELE CESCHIN. Per combattere la guerra partigiana Nino De Marchi aveva scelto un nome di battaglia epico: Rolando, come il paladino di Carlo Magno caduto a Roncisvalle. La Resistenza era stata una scelta naturale dopo l’8 settembre del 1943, lui che pur aveva frequentato il corso allievi ufficiali. L’armistizio infatti lo sorprese in caserma a Belluno, dove era sottotenente di artiglieria alpina. Il tornante decisivo della sua vita lo accomunò a centinaia di migliaia di giovani militari – graduati e non – che si trovarono improvvisamente di fronte a una delle pagine più tragiche della storia d’Italia. Un Paese rimasto orfano delle sue istituzioni civili e che stava collassando sotto il peso della scellerata guerra di Mussolini. Subito l’idea di tornare a valle, a Conegliano, la città in cui era nato nel 1920 ed era vissuto fino agli studi all’Istituto Enologico. Quindi la decisione di non presentarsi ai comandi tedeschi e di nascondersi nei luoghi di villeggiatura della sua infanzia, in Alpago. Una clandestinità tutto sommato tranquilla tra la fine del ’43 e i primi mesi del ’44: la vita spartana fatta di cose semplici ed essenziali, il primo gruppo di sbandati, le armi rudimentali, l’essere riconosciuto come fratello maggiore dai numerosi renitenti alla leva riparati da quelle parti. Poca politica – solo un antifascismo istintivo – e molta fraternità tra giovani che di lì a poco avrebbero conosciuto il battesimo del fuoco. I nomi delle formazioni partigiane rimandavano al Risorgimento: Ciro Menotti, Fratelli Bandiera, Bixio, Cairoli. Forse perché questi ragazzi si sentivano un po’ patrioti anche loro, protagonisti di una guerra che poteva ridare finalmente dignità a un’Italia infangata dal fascismo. Una guerra che si fece più dura a partire dalla fine dell’estate del ’44, quando la presenza nazista cominciò a farsi sentire nell’Alto Trevigiano. Nell’agosto il trasferimento in Cansiglio, proprio alla vigilia dell’accerchiamento da parte dei reparti tedeschi. Come noto, lo sganciamento dei partigiani fu da manuale e permise di conservare integre le loro truppe. Nino raggiunse ancora l’Alpago, facendo più volte la spola verso il Cansiglio e poi verso Vittorio Veneto fino alla Liberazione. Rolando non è stato reticente rispetto alla sua stagione partigiana. L’ha raccontata molte volte ai giovani, perché considerava la memoria di quei mesi un patrimonio da condividere. Addirittura ha scritto un libro di memorie pubblicato una quindicina di anni fa, lui che aveva iniziato a tenere un diario e che poi, per motivi di tempo, non era riuscito ad aggiornare. La sua esperienza è documentata anche dalle numerose foto scattate con la macchina del fratello. I primi scatti sono proprio quelli immediatamente successivi al rastrellamento e danno conto della distruzione portata dal fuoco dell’occupante: “L’impotente rabbia del tedesco si è sfogata sulle povere case, sulle poche masserizie che sanno del sudore di molte generazioni”. Così si possono riconoscere gli edifici bruciati in Cansiglio: le abitazioni civili, l’albergo San Marco, la caserma della Guardia Forestale, la segheria di Campon. Le altre foto invece raccontano la vita comunitaria e di casera dei reparti partigiani, in particolare a Montanes d’Alpago: la preparazione della polenta, la pulizia delle armi, il cane Argo, la moto sottratta ai tedeschi, Rolando a cavallo. E poi tante foto di gruppo, comprese quelle più belle del maggio del 1945, in una Vittorio Veneto finalmente liberata, con la sfilata per le vie della città della divisione Nannetti. Volti sorridenti che si erano lasciati alle spalle la violenza e le brutture della guerra combattuta in montagna.
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso